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Biennale Venezia 2013: Bartolomeo Pietromarchi: “Il mio “Padiglione Italia” valorizza la creatività italiana”

Direttore del MACRO di Roma e curatore del Padiglione Italia di questa 55ma Biennale d’Arte di Venezia.
A cura di Valentina Pepe
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Vi riportiamo l'intervista di Simone Verde, (Huffingtonpost) a Bartolomeo Pietromarchi:“Complessità e stratificazione sono le parole chiave della geografia culturale italiana. E da qui ho voluto ripartire”. Così Bartolomeo Pietromarchi, direttore del MACRO di Roma e curatore del Padiglione Italia di questa 55ma Biennale d’Arte di Venezia. A due anni dalle polemiche suscitate dalla curatela di Vittorio Sgarbi alla 54ma mostra del 2011, oggi si tenta di ricucire, ricomponendo i conflitti e le profonde distanze culturali e territoriali di sempre. Pietromarchi lo fa, non a caso però, ricorrendo a una serie di sette antinomie sotto le quali organizzare il lavoro di 14 artisti, giovani e meno giovani, con l’ambizione di una mappatura storica e concettuale di un paese comunque frammentato.

Per quale ragione ha scelto di ricorrere a concetti antinomici per raccontare l’arte italiana contemporanea?

"È una scelta critica che ha una lunga storia. Che si ispira all’approccio interpretativo di alcuni artisti stessi come Alighiero Boetti, Michelangelo Pistoletto o Giulio Paolini, che quest’anno è tra gli artisti che espongono nel nostro padiglione. L’idea del doppio ritorna spesso nella storia dell’arte italiana ed è sottolineato anche dal filosofo Giorgio Agamben che ha utilizzato questo approccio per interpretare alcune opere fondanti della storia letteraria e poetica del paese".

Lo si deve alla frammentazione italiana? All’impossibilità di presentarci al mondo con un’identità unitaria?

"Non si tratta per forza di una sciagura, ma può essere invece una grande risorsa. Ed è questa complessità positiva che mi interessava e che ci interessava restituire al pubblico come un’opportunità per ritrovare costruttivamente se stesso".

Si può curare un padiglione nazionale optando per una scelta forte e provocatoria oppure restituendo il panorama della creazione nazionale. Lei ha scelto questa seconda strada, perché?

"Perché credo ci fosse bisogno di una ricomposizione e di una ricostruzione articolata della creatività di un paese che disperde troppo spesso le sue capacità".

Due anni fa il padiglione curato da Vittorio Sgarbi si offrì con aspre polemiche. Cosa si aspetta dal pubblico e dalla critica?

"Mi aspetto commenti seri e, perché no, anche negativi ma non polemica fine a se stessa. Il nostro è stato sin dall’inizio un approccio propositivo e sarebbe davvero un peccato se oltre al giusto dibattito critico sui contenuti si cedesse al conflitto strumentale. Ma non avverrà. Fin ora i commenti di chi ha visitato il padiglione sono stati positivi e costruttivi".

Il padiglione di Massimiliano Gioni propone una fuga nell’antropologico. Crede sia il risultato culturale del tempo di crisi che stiamo vivendo?

"Dal mio punto di vista si tratta ancora una volta della ramificazione dell’arte e del lavoro degli artisti in discipline tradizionalmente lontane. La scienza, la filosofia, animano la ricerca e il dibattito di persone che sono radicate in maniera sempre più complessa e consapevole nel mondo e così l’arte diventa più intellettuale, più stratificata linguisticamente. È il segno dei tempi, dell’articolazione del mondo globale".

Suono/silenzio, storia/corpo, veduta/luogo, prospettiva/superficie, familiare/estraneo, sistema/frammento, tragedia/commedia sono le sette antinomie di questo padiglione. Quale tratto d’unione tra queste duplici voci?

"Lo ripeto, la complessità, la stratificazione di un paese articolato e ricco di facce diverse. Lo raccontano tutti e 14 gli artisti invitati a esporre, che lavorano a latitudini diverse, che hanno età diverse e appartengono a contesti culturali molto eterogenei tra loro. Il trait d’union sta dunque nel valorizzare le differenze, senza rinunciare a costruire un panorama unitario. Nella complessità".

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